Aperitivo: Milano vs Lecce
L’argomento su cui mi concentrerò non è da collocare nella definizione stringente di “aperitivo” quale bevanda alcolica tendenzialmente assunta per stimolare l’appetito, bensì nell’accezione più ampia di momento conviviale in cui bere e mangiare in orario vicino a quello dei pasti principali. Per dirla come un moderno viveur, voglio raccontarvi l’ “Happy Hour”.
In Italia la città di riferimento per capire pienamente il fenomeno è una su tutte Milano. Capitale delle ore felici trascorse intorno ai tavolini di un bar o pub, rintracciabili tra le 18 e le 21. Una sorta di dopo lavoro da dedicare al relax, alle chiacchiere tra amici e al piacere di un cocktail, di una birra o di un calice di vino. Nulla di tutto ciò avrebbe senso senza il ricchissimo buffet che viene offerto nel prezzo della consumazione. I banconi diventano l’approdo di avventori muniti di piattino e forchettina d’ordinanza, tutti intenti a scegliere e selezionare il cibo preferito tra tartine, insalate, pasta fredda e calda, focacce, fritti misti, wurstel preparati nei modi più creativi (e improbabili), patatine e pasticci di carne o pasticci in genere. L’unico elemento che accomuna tutte le pietanze è l’uso spropositato di sale, che rientra probabilmente in una pratica diffusa d’incentivo semi occulto all’incremento delle consumazioni. Più sale, più sete, più bevi, più consumi. Il ragionamento non può essere soggetto a critiche.
Nei locali più chic della città meneghina è possibile anche sorseggiare un analcolico gustando frutta fresca, pinzimonio e dolci. Una variante decisamente più raffinata dell’assalto al buffet che il più delle volte, tra un bicchiere e l’altro, sostituisce completamente la cena. A differenza delle città anglosassoni, in cui l’happy hour è nato per offrire agli impiegati alcol a prezzi ridotti da consumare dopo il lavoro, in Italia il prezzo è fisso e tendenzialmente più alto di quanto si pagherebbe per la singola consumazione in orario diverso. Un format perfettamente riadattato ad una città produttiva all’ombra del Duomo.
Differenze non trascurabili di questo piacevole rito sono riscontrabili non solo oltremanica, ma anche nello stesso territorio italico. Prendiamo come città di riferimento Lecce.
Primo elemento distintivo: qui l’happy hour non esiste, si chiama aperitivo e può essere consumato o a mezzogiorno o in serata. Guai a pensare che possa sostituire il pranzo o la cena, è solo il pretesto per vedere gli amici e prepararsi ai luculliani pasti che seguiranno. Nessun bancone da assalire, ci si siede e si viene serviti al tavolo con la bibita ordinata accompagnata da piattini e vassoi ricchi di panzerottini, rustici, sfoglie salate farcite, olive e sottaceti (solitamente delle aziende agricole della zona), friselle, tarallini, tramezzini con un vago richiamo anni ’80 e fritti misti. In questo caso è inutile rendere salati gli alimenti, la consumazione sarà una, il tempo dedicato a questo momento non può essere più lungo di quello necessario per sorseggiare una birra. Ci sono piatti tenuti in caldo sulle tavole di famiglia e mamme o nonne che attendono, guai a telefonare per avvisare che si salterà il pranzo, sarebbe un affronto imperdonabile.
In questo veloce confronto non ci sono vincitori o vinti, né preferenze da manifestare; sono due modi diversi di vivere lo stesso rito, con uguale voglia di rilassarsi, senza pensare troppo ad altro. C’è, però, un piccolo dettaglio che non ho trascurato di osservare in questi lunghi anni trascorsi tra aperitivi consumati a Lecce e Milano, a seconda del periodo dell’anno: in quanto a digeribilità e “pesantezza” del cibo consumato, per la prima volta il Nord batte il Sud a mani basse, senza possibilità di rivincita. Cercherò di ricordarlo durante le notti insonni post parmigiana di melanzane, trascorse a maledire la mia inguaribile passione per i piatti della tradizione pugliese mangiati a cena, senza porre limite alle porzioni.